25 gennaio 2022 – No all’eutanasia, sì alla cura e all’accompagnamento

Legalizzare l’aiuto al suicidio e l’eutanasia, questo l’obiettivo della proposta di legge sulla morte volontaria medicalmente assistita (MVMA) in discussione alla Camera, affiancata dalla richiesta di referendum parzialmente abrogativo della norma del Codice Penale che punisce l’omicidio del consenziente, referendum di cui la Consulta dovrà valutare l’ammissibilità costituzionale. Il testo della proposta, aggiornato con gli ultimi emendamenti riporta all’Art.1 (Finalità):  “La presente legge disciplina la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita, alle condizioni, nei limiti e con i presupposti previsti dalla presente legge e nel rispetto dei principi  della Costituzione,  della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e  della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Da una lettura attenta del testo appare evidente come l’obiettivo della legge non sia porre fine a sofferenze intollerabili, bensì provocare la morte. A chiunque la richieda. Innanzitutto non vi è alcun riferimento allo stato terminale nel quale dovrebbe trovarsi la persona da sottoporre alla MVMA: ad esempio, un soggetto affetto da tumore inguaribile ha senza dubbio una patologia irreversibile con prognosi infausta, ma questo non vuol dire necessariamente essere vicino alla morte. L’espressione “condizione clinica irreversibile” comporta il riferimento a una disabilità grave o alla non autosufficienza dovuta all’età: ciò conferma la percezione di una finalità intrinseca nel testo in esame, teso a togliere la vita a un grave disabile, la cui sofferenza di ordine psicologico richiede aiuto e sostegno, non certo la ricerca delle modalità più adatte ad ucciderlo, non trovandosi in uno stato terminale, ma in una condizione che percepisce come non tollerabile. Anziché fornirgli sostegno psicologico e assistenza sanitaria, viene indicata la strada della morte procurata. Come sappiamo, il Servizio sanitario nazionale è tenuto a garantire “adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio-assistenziale alla persona malata e alla famiglia”, ciò significa indirizzare risorse ed energie per aumentare la copertura finanziaria delle cure palliative e incentivare il sostegno dei caregiver.  Secondo il testo in discussione (Art.3) la richiesta di porre termine alla propria vita deve essere una scelta pienamente consapevole e responsabile, volontaria e autonoma, attuale, informata, consapevole, libera ed esplicita. Ma tutto ciò contrasta tragicamente con la realtà del vissuto: chi si trova in condizioni di salute difficili alterna giorni di disperazione ad altri di speranza, in base anche allo stato di vicinanza di affetti e di aiuti concreti. In questo quadro c’è da attendersi che quanto accade ormai dall’approvazione della L194/78, che ha legalizzato l’aborto in Italia, si riproporrà, nella prassi, quanto è stato per l’inizio della vita anche per il suo termine: basterà la richiesta per presumerne la consapevolezza e la determinazione dell’interessato, senza che a nessuno venga chiesto conto dell’aver fornito adeguata informazione. Il medico cui la richiesta verrà presentata sarà ovviamente un non obiettore, e quindi, come è avvenuto finora per l’aborto, tenderà a ridurre a una formalità gli adempimenti che gli vengono prescritti, tranquillo del fatto che dalla loro inosservanza non deriva alcuna conseguenza. Per quanto attiene al rifiuto del paziente delle cure palliative, contemplato nel testo, è bene ricordare che la relazione con il paziente non può comunque mai ridursi ad un atto meramente burocratico, cioè una semplice “presa d’atto” della volontà del paziente, quali che siano le sue motivazioni: per quanto le circostanze possano essere drammatiche, dinanzi al rifiuto del paziente non può comunque conseguirne l’abbandono, ma anzi va garantito sempre un adeguato livello di cure. L’Art.5 prevede che nel caso in cui il medico non ritenga di trasmettere la richiesta al Comitato per la valutazione clinica (o in caso di parere contrario dello stesso Comitato), resta ferma comunque la possibilità per la persona che abbia richiesto la MVMA  di ricorrere al giudice territorialmente competente. Ciò, oltre che costituire un pesante condizionamento per il medico e per il Comitato (poiché all’accoglimento del ricorso da parte del giudice seguirebbe la richiesta di risarcimento danni per MVMA non tempestivamente garantita), significa palesemente riconoscere alla MVMA la fattispecie di diritto esigibile, (con previsione del ricorso al giudice ordinario) cui corrisponde il dovere del Servizio sanitario nazionale di conferire la morte a una persona. Ciò è in aperto contrasto con le finalità istitutive del Servizio, la cui legge istitutiva (23 dicembre 1978 n. 833) sancisce che “Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali”. Per quanto attiene all’obiezione di coscienza, qualora il paziente richieda la MVMA, se il medico di famiglia, che per lungo tempo lo ha assistito, ha sollevato obiezione di coscienza, è costretto a non assisterlo più, proprio quando ne avrebbe più bisogno: “l’adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio-assistenziale alla persona malata e alla famiglia” di fatto viene cancellato, i medici non obiettori diventano burocrati passacarte della richiesta di MVMA, esattamente come già accade per il rilascio del certificato di aborto, nella prassi mai preceduto dalla indicazione di concrete alternative all’aborto (come tra l’altro previsto dalla legge 194). Di fatto, il conflitto tra i due ‘diritti’ quello presunto che il testo della proposta intende riconoscere al richiedente la morte e il diritto al rispetto della coscienza del medico, viene risolto a monte, di fatto escludendo dal rapporto col paziente il medico obiettore. Un’ultima considerazione riguarda quello che viene indicato come ‘principio fondamentale’ e cioè la ‘qualità della vita’. In quest’ottica, il concetto di ‘qualità di vita’, di per sé un valore, rischia di assumere caratteristiche inquietanti. Invocando, infatti, tale concetto, se si perde di vista il valore assoluto della vita umana e della sua dignità di persona, a prescindere dalle sue condizioni, si può arrivare a commettere veri e propri orrori, mistificati da falsa misericordia. Tale approccio è ormai tristemente noto nella prassi del ricorso all’aborto. Va sempre più consolidandosi, infatti, una tesi da brividi secondo cui ‘se la tecnologia ci consente di capire se l’individuo che nascerà avrà una ‘qualità di vita’ accettabile oppure no, se non lo sarà, meglio non farlo nascere’.  Ma la domanda che ne consegue è inevitabile e drammatica: qual è la qualità di vita considerata accettabile? Quali sono i limiti sotto i quali una vita è considerata non degna di essere vissuta? E, soprattutto, chi lo stabilisce? I familiari? I medici? I giudici? Il governo? Ogni volta che nel corso della storia si è sottratta la dignità di persona ad un essere umano, si sono messi in atto i peggiori crimini contro l’umanità.

di Olimpia Tarzia